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La genesi di questa terapia si è avvalsa di numerose osservazioni cliniche, degli studi sull’attaccamento, delle teorie evoluzionistiche e anche dei contributi delle neuroscienze cognitive.
Paul Gilbert (2007) iniziò ad osservare come alcuni pazienti depressi fossero particolarmente resistenti al trattamento. I pensieri di questi pazienti erano caratterizzati da una forte autocritica e da sentimenti di vergogna verso i propri stati affettivi negativi. Questa tipologia di pazienti, sebbene arrivasse a comprendere l’illogicità dei propri pensieri negativi ed arrivasse a metterli in discussione razionalmente, di fatto non modificava il proprio tono emotivo e il dialogo interno.
Questi ultimi restavano iper-analitici, iper-critici, freddi, distaccati, svalutanti, andando a compromettere anche l’esposizione e l’esecuzione degli homeworks. Era come se questi pazienti comprendessero il razionale dell’intervento, ma faticassero a sentirlo proprio. Secondo Gilbert, in questi pazienti così iper-critici ci sarebbe uno squilibrio nei sistemi di regolazione delle emozioni, acquisito durante le prime esperienze di attaccamento. Fu così che i primi interventi di Gilbert si focalizzarono sull’incoraggiare e insegnare a questi pazienti come sviluppare una voce calda e gentile che suggerisse loro pensieri alternativi e li incoraggiasse durante lo svolgimento dei compiti e delle esposizioni, con l’obiettivo di attivare uno dei tre sistemi di regolazione emotiva, il sistema di consolazione o calmante, in modo che regolasse le altre emozioni basate sul senso di minaccia (rabbia, disgusto, vergogna, paura).
Gilbert individua infatti tre sistemi di regolazione affettiva:
Basandosi su questa concettualizzazione quindi, Gilbert e colleghi si focalizzano sullo squilibrio che sarebbe presente in alcune persone tra questi tre sistemi, con l’obiettivo di sviluppare il sistema calmante che in molti pazienti risulta ipoattivo. L’ipotesi è quella secondo cui un implemento del sistema calmante porterebbe a una miglior gestione da parte del paziente dello squilibrio presente negli altri due sistemi.
Il Sé compassionevole rappresenta quindi il principale motore del funzionamento del sistema calmante e il suo sviluppo verrebbe favorito da una serie di tecniche ed esercizi propri della Terapia Focalizzata sulla Compassione quali il reality check, il posto sicuro e la creatura compassionevole, la lettera compassionevole e l’esercizio della mindfulness.
In base agli studi condotti, Gilbert e colleghi arrivano ad una nuova definizione di compassione, in parte mutuata dagli insegnamenti buddisti, ma che al contempo si radica scientificamente nei più moderni contributi neuroscientifici, ovvero: Compassione è l’abilità di esperire in modo accettante emozioni difficili, di osservare in modo mindful i nostri pensieri giudicanti, senza permettere loro di dominare le nostre azioni e i nostri stati mentali, di impegnarci in modo pieno con gentilezza e autovalidazione verso direzioni di vita ricche di valore e di cambiare in modo flessibile la nostra prospettiva verso un più ampio senso di sé (Hayes, 2012; Dahl, e coll. 2009).
La compassione si può insegnare e si può apprendere attraverso un addestramento, il Compassionate Mind Training, che aiuta i pazienti ad esercitare alcune competenze fondamentali.
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